Nulla di fatto nella riunione di vertice della Lega, nulla sembra essere successo.
Le divergenze restano.
Matteo Salvini ha messo in scena la sciarada del leader forte. Giancarlo Giorgetti, con gli altri dissenzienti, è stato al gioco.
Tutto rimandato
Ma la guerra Salvini l’ha già persa e su molti fronti.
La parola Salvini premier come nome del partito, è già di per sé ormai un’asserzione utopica ed irrealizzabile.
Salvini è stato un uomo capace di innalzare un partito regionalizzato sino a farlo diventare un partito nazionale.
Ha portato la Lega a non essere più quella che proponeva solo un’istanza secessionista.
E di questo ogni italiano deve essergli grato.
Però, oggettivamente, si sta dimostrando sempre più un leader inadatto al momento, ed incapace di rinnovarsi.
Un importante manager, che anni fa lo aveva anche in parte ammirato, recentemente mi ha confessato che ormai lo trova, ignorante, superficiale e ripetitivo.
Un’analisi lucida, uno specchio di come lo vedono gran parte dei membri della classe dirigente di questo paese.
Era il leader del primo partito italiano, sedeva al governo nel quale era determinante, il suo operato come ministro era apprezzato dalla maggioranza netta degli italiani.
Poi il successo delle elezioni europee, il caldo estivo – e forse qualche drink di troppo al Papeete – gli hanno fatto perdere la bussola ed è andato ad inanellare una serie impressionante di errori.
È uscito dal governo, convinto per un suo calcolo errato che PD e grillini non si sarebbero messi d’accordo per evitare le elezioni. E che queste gli avrebbero consegnato il paese su un vassoio d’argento.
Come un adulto che a trent’anni crede ancora in Babbo Natale.
Si è specializzato nella regressiva tattica dei passi del gambero
Infatti, invece di andare avanti e dimostrare di sapersi evolvere e maturare quale leader, ha dato costante prova di immaturità ed indecisione.
Il bravo ragazzo con la felpa che sta poco a suo agio in giacca e cravatta.
Ha continuato una special relationship con tutti quei movimenti più marginalizzati in Europa in primis la Le Pen.
Ed invece di guardare agli anni più proficui per Orban, quelli interni al PPE, lo ha seguito quando è stato messo ai margini.
Praticamente si è nuovamente marginalizzato da solo, entrando festante nel club degli esclusi.
Ha sposato la causa del presidente americano Donald Trump, il quale aveva dato il suo imprinting per Conte bis ancor prima che Mattarella gli conferisse l’incarico. Ricordiamo che invece lo stesso Matteo Salvini, convinto di godere di una qualche simpatia di Trump, chiedeva lo scioglimento delle camere.
Lo stesso Salvini, in fondo, non crede più alla frase per la quale ascolterebbe tutti ma poi deciderebbe lui. Fa di testa sua e basta.
Considerato che il suo maggior problema è una continua erosione di consenso, non solo da parte della Meloni che è ormai un competitor temibile, con cui dovrà fare i conti, ma soprattutto da un fronte interno ad un partito irrequieto.
Ma lui continua a dare prove di immaturità, rifiutando la prospettiva dell’adesione al PPE.
Tale entrata, soprattutto dovrebbe definire, almeno in linea teorica, la sua figura. Renderla più solida ed appetibile per un più vasto bacino di votanti.
Ma, probabilmente, sa benissimo di non essere all’altezza della situazione. E che l’adesione aprirebbe il rischio concreto di mandare un leghista alternativo a lui (Giorgetti in primis) a Palazzo Chigi al posto suo.
Da perdente di successo continua a rifiutare l’idea di essere all’altezza di tali incarichi. Preferisce chiudere la porta in faccia a quegli ambienti che potrebbe aprirgli le porte delle stanze dei bottoni.
Viene smentito, ormai, quasi quotidianamente, non solo dal suo ministro dello sviluppo economico, ma anche dai governatori e dagli amministratori del Nord.
Perché se Salvini ha creato una Lega nazionale, bisogna anche riconoscere che nel centro sud è ancora abbastanza fragile e fatiscente. Ed al contempo continua a deludere gli imprenditori del nord, nettamente più vicini alle posizioni di Zaia, Fedriga e Giorgetti.
Sulla storia del Green Pass è riuscito a scontentare sia i contrari, che voleva corteggiare, che i favorevoli all’interno del partito. Con la sua capacità di tenere una linea del tutto priva di solide scelte di base, è risultato debole agli occhi dei primi ed irresponsabile per gli altri.
Si è rivelato fenomenale nello scegliere candidati sbagliati, e nel metterci pesantemente la faccia.
Per la prima volta nella storia dell’elezione diretta è riuscito a perdere Milano al primo turno. Ed è andato a riempire di gloria una vittoria scontata di Enrico Letta, mettendosi in gioco in prima persona su una situazione disperata come il collegio senese.
Un suo vizio, ormai, vista la campagna in favore della Borgonzoni, che non teneva conto della capacità amministrativa di un Bonaccini, con conseguente apprezzamento dell’elettorato, ed il successivo suicidio politico puntando sulla rossa toscana.
Praticamente voleva sfondare nelle regioni rosse ma ha finito per amplificare le vittorie scontate persino per un PD in sottotono.
Oggi è in totale confusione
Vuole giocare a fare il sovranista ed essere determinante al governo. Ogni provvedimento viene decantato come un successo della Lega di governo.
Ma la verità è che, probabilmente, moltissimi franchi tiratori nel suo partito, come è successo ultimamente, lo faranno essere ancora più marginale della scelta del prossimo Presidente della Repubblica.
Difficilmente potrebbe pensare di portare oggi fuori la Lega dal governo, senza conseguenze come la ribellione dei governatori del Nord, dei quali ha bisogno.
Cercherà, quindi, di arrestare l’emorragia di consensi in favore della Meloni. Ma sarà sempre meno credibile, come alternativa, e difficilmente compenserà, guadagnando voti in quegli ambienti moderati, che ormai lo reputano inaffidabile.
Cercherà allora di tenere botta, finendo per rimanere praticamente bloccato in una situazione di stallo, tentando qualche colpo di mano dei suoi, che però da due anni a questa parte si rivelano disastrosi.
In tutti e due i casi il futuro non sembra sorridergli.
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