l 30 ottobre di 150 anni fa nasceva “il pensatore più libero e più indipendente”, il più attuale e più inattuale del Novecento. Paul Valéry arbitrò con distaccata eleganza e implacabile lucidità la sanguinosa partita del secolo. Era un poeta o un filosofo, uno scienziato o uno scrittore, un giornalista o che? Valéry era un’intelligenza pura, tesa a comprendere il mondo con l’occhio dell’artista e la mente del pensatore; tutti gli ismi che popolano il Novecento, le ideologie e i sistemi filosofici in lui si riducono a fantasmi o a sciocchezze, come lui diceva.
I suoi Quaderni sono uno spettacolo brioso dell’intelligenza, il pensiero di una vita, quel lavorio geniale di osservazione e penetrazione durato più di mezzo secolo; cominciato nell’800, quando aveva vent’anni, e finito oltre i settant’anni, con la sua morte, nel 1945, quando la metà tremenda del Novecento volgeva alla fine. Non è un diario – “mi annoierebbe troppo scrivere quello che intendo dimenticare” ̶ né un emporio di opinioni ma un lavoro necessario e inutile come la tela di Penelope, per osservare il mondo nel suo versante visibile e in quello invisibile. “Avevo vent’anni e credevo alla forza del pensiero ̶ scrive ̶ stranamente soffrivo di essere e di non essere…Ero tetro, leggero, facile alla superficie, duro al fondo, estremo nel disprezzo, assoluto nell’ammirazione”.
Valéry non sposa nessun dio, neanche l’io, nessuna rivoluzione, nessun progresso e nessuna tradizione, e nemmeno li demolisce. Non ha una sua teoria, e tantomeno un sistema, è puro occhio pensante e voce poetante. Scrive oltre 26mila pagine, 261 quaderni, in un esercizio quotidiano dalle 5 alle 8 del mattino quando gli sembra “di aver già vissuto con la mente tutta una giornata, e guadagnato il diritto di essere stupido fino alla sera”. Bisogna tentare di vivere, in raccolta solitudine. “Noi siamo il giocattolo di cose assenti che non hanno nemmeno bisogno di esistere per agire”.
Valéry seguì il cammino della poesia assoluta di Mallarmé, ma il poeta per lui è il personaggio più vulnerabile della creazione, “cammina sulle mani”. Gli dei, sostenne, ci concedono la grazia del primo verso, poi tocca a noi modellare il secondo. Dunque si è poeti a partire dal secondo verso, quando si deve meritare la grazia del primo. Valéry ritenne che il pensiero della morte fosse la molla delle leggi, la madre delle religioni, l’agente della politica, la spinta alla gloria e ai grandi amori, l’origine di ricerche e meditazioni. Senza di lei, la vita è pura noia. Noi umani “ansiosi di sapere, troppo felici d’ignorare”.
Sintesi perfetta della nostra imperfezione insoddisfatta. Lo splendore della sua intelligenza si acuisce nei suoi appunti dedicati all’amore, ai corpi, ai sogni. Il cammino del pensiero si accompagna alla musica che “desta e assopisce i sentimenti, si prende gioco dei ricordi e delle emozioni di cui sollecita, mescola, intreccia e scioglie i segreti comandi”.
Se i Quaderni, usciti in cinque volumi da Adelphi, sono la spina dorsale dell’opera di Valéry, le sue opere poetiche, incluso il poema Cimitero marino, ne costituiscono il canto. E poi i suoi sparsi scritti, raccolti in antologie e florilegi di aforismi. Restò celebre di Valéry il richiamo alla fine delle civiltà ne La crisi del pensiero: “Noi le civiltà ora sappiamo che siamo mortali”, scrisse nel 1919. Così Valéry fu iscritto nella letteratura della crisi, sulla scia del Tramonto di Spengler. Nato a Cetty da gente di mare, metà corso e metà ligure, Valéry colse le tre fonti dell’Europa nella Grecia, in Roma e nella cristianità e trovò nel Mediterraneo il cuore pensante dell’Europa.
Per Valéry la nostra epoca è segnata dalla fine della durata, l’avvento del provvisorio e dell’ubiquità, il dominio dell’istante. È la premonizione del nostro oggi globale. Per sfuggire a questa tirannide non resterà che costruire chiostri rigorosi, isolati dai media e dalla realtà circostante dove “si andrà a osservare, attraverso le grate, alcuni esemplari di uomini liberi”.
Poi c’è il lato occultato e imperdonabile di Valéry: il suo elogio della dittatura, in una prefazione a un libro di Salazar, “risposta inevitabile dello spirito quando non riconosce più nella conduzione degli affari, l’autorità, la continuità, l’unità”. La visita a Mussolini e poi sulla scia delle suggestioni fasciste, la fondazione del centro universitario mediterraneo nel ’33, come scrive suo figlio Francois introducendo il taccuino I principi d’anarchia pura e applicata. Vicino a Petain e poi a de Gaulle, Valéry si sentiva “di sinistra tra quelli di destra, di destra fra quelli di sinistra”, anarchico e impolitico – “più un uomo è intelligente, meno appartiene al suo partito” ̶ “di nessun colore politico. Io amo solamente la luce bianca”.
Difatti il pensiero di Valéry non esprime tesi ma culmina nella luce bianca del Mediterraneo. “Giammai e in nessuna parte del mondo s’è potuto osservare in un’area così ristretta e in un così breve intervallo di tempo, un tale fermento di spiriti, una tale produzione di ricchezze”. Il pensiero promana dal paesaggio, nelle sue “tre o quattro divinità incontestabili: il Mare, il Cielo, il Sole”.
La quarta, intermittente, sarà il vento. Ricordando la sua gioventù sulle rive del Mediterraneo scrive: “Non vedo quale libro potrebbe valere, quale autore potrebbe creare in noi quegli stati di stupore fecondo, di contemplazione e di comunione che ho conosciuto nei miei primi anni. Meglio di qualunque lettura, meglio dei poeti, meglio dei filosofi, certi sguardi, lanciati senza pensiero definito né definibile, certe soste sui puri elementi della luce”. Pura geosofia. Il poeta coglie l’incanto divino della luce, il pensatore penetra l’essenza tragica del mondo e l’esteta si arrende alla supremazia della vita sul pensiero. Valéry fu genio di nessuna fede, nessun partito, nessuna scuola, libero come il mare. Alunno del sole, e dell’ombra.
MV, La Verità
Leggi anche: Icardi a Wanda Nara: Ora puoi sco… i ragazzi
www.facebook.com/adhocnewsitalia
SEGUICI SU GOOGLE NEWS: NEWS.GOOGLE.IT