Vittorio Feltri e La Cappa, l’umanità non cambia mai o peggiora sempre?

umanità

Nella sua riflessione su La Cappa, pur farcita di generosi riconoscimenti, Vittorio Feltri su Libero obbietta al mio libro sostanzialmente una cosa: l’uomo non è peggiorato, è così da sempre, lui è stupido e la sua società fa schifo, ma non è il caso di rimpiangere i secoli passati. Ora, la cosa strana della sua obiezione è che io la condivido, grosso modo. E nel mio libro lo scrivo pure: non viviamo nel peggiore dei mondi possibili, ogni epoca ha le sue croci e le sue infamie; l’uomo è sempre imperfetto, semmai mutano i tipi di imperfezione e i metri di giudizio. Da millenni le generazioni dei vecchi rinfacciano il degrado alle generazioni più giovani; ma un po’ proiettano la loro, personale decadenza.

Una cappa sanitaria e tecnocratica

In realtà, il tema del mio libro non è l’umanità peggiorata rispetto a un passato ideale, ma è l’oppressione di una cappa che incombe sull’umanità al tempo della pandemia e oltre. Una cappa sanitaria e tecnocratica, un sistema illibertario di controllo e omologazione, un regime invasivo di sorveglianza e conformismo; a cui si uniscono poi i canoni e i divieti del politically correct, della nuova sessuofobia, della storia cancellata, delle sovranità espropriate, della natura abolita e del pensiero uniformato. È come se ci fossero tante nubi sparse di diversa origine e provenienza e diverso spessore; ma poi si condensassero, fino a compattarsi in una cappa che copre il cielo. Una cappa che discesa a livello umano, si fa cupola. È quello il tema del libro, non è il paragone tra gli antichi beati e i moderni dannati.

Ma al di là della Cappa, Feltri pone un tema importante, di ordine generale, che rivela la sostanziale differenza tra chi è reazionario e chi è conservatore: il reazionario rimpiange il tempo antico, vuol tornare indietro, mentre il conservatore ritiene che l’umanità non cambi, è sempre stata così. La prima tesi porta al pensiero antimoderno, anche se il reazionario Gómez Dàvila precisa che “il reazionario non aspira a retrocedere, bensì a cambiare rotta”.

Giuseppe Prezzolini

La seconda tesi invece conduce al realismo disincantato dei conservatori, ben espresso giusto mezzo secolo fa da Giuseppe Prezzolini, nel Manifesto dei conservatori. Feltri si schiera decisamente su questa linea conservatrice, anche se la colora con un esplicito disprezzo per l’umanità di ogni tempo. Un conservatore positivo ama e benedice la gioia duratura del mondo; un conservatore arrabbiato maledice la ripetizione infinita dell’umanità che considera come Feltri “un porcaio” permanente.

Anch’io reputo insensato il rimpianto di un’epoca irrimediabilmente trascorsa: sono impossibili i ritorni, irreali, patetici e improponibili, e non è vero che l’uomo di oggi in assoluto sia il peggiore. Di quante infamie, crudeltà, barbarie e meschinità è gonfia la storia, perfino quella religiosa, insieme agli eroismi, la santità, la dedizione, la gloria, l’onore.

Non reputo invece che l’uomo sia “immutabile” come lui dice. Lungo il suo cammino l’umanità avanza e retrocede, su piani diversi, va in alto e scende in basso, sbanda o cresce di lato. Insomma, non sta ferma – come pensa il conservatore inerte – ma i suoi movimenti non sono lineari, piuttosto sono ondulatori, sussultori, sinuosi, circolari.

Quando confuto l’idea di vivere nel peggiore dei mondi possibili, aggiungo però una cosa: non abbiamo raggiunto il punto più basso dell’umanità ma stiamo raggiungendo un punto di non-ritorno. È quello il dato più preoccupante: dal profilo demografico e ambientale, tecnologico e spirituale, stiamo raggiungendo punti che non trovano precedenti nella storia dell’uomo, da cui potrà essere impossibile scampare. Perciò anziché di immutabilità mi occupo di Mutazione.

Quella non era l’età dell’oro

Feltri esorta a non coltivare nostalgie; e quel tipo di rimpianto con la pretesa folle di rimettere indietro le lancette del tempo, è in effetti insensato. Ma io nutro nostalgia per due cose assai diverse: sul piano ideale per alcuni principi che reputo fondamentali (nostalgia degli dei, la chiamai), perché danno un orizzonte e un cardine, un significato e un destino alla nostra vita.

E sul piano personale (e letterario) rivendico la bellezza dei ricordi, l’amore struggente dell’infanzia passata e della gioventù trascorsa, dei cari perduti, del mondo in cui vivemmo “in quel tempo” mitizzato, la giovinezza di tutti coloro che amammo. Quella non era l’età dell’oro; ma più modestamente per noi, per la nostra vita, quell’epoca imperfetta è il nostro piccolo paradiso perduto e suscita ricordi d’amore.

Queste due nostalgie non vorrei perderle mai, perché la prima ci porta in alto con la mente e la seconda ci porta dentro il cuore; e nessuno scetticismo, nessun disincanto, nessuna sfiducia del mondo e degli altri potrà mai scalfirle. Anche perché sono i segni – sostengo nel mio libro- che non apparteniamo solo al tempo presente ma anche al passato, al futuro, al favoloso, all’eterno.

MV, La Verità

 

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