Saranno davvero pochi, e anziani, quelli che da noi non hanno almeno una volta nella vita tentato di praticare yoga, o varianti. Lo yoga è diventato la via d’uscita, anche domestica, dal mondo occidentale, dallo stress e dalla depressione, cercando quelle esperienze del corpo e quella pace della mente che un tempo si cercavano nella preghiera, nella fede o negli esercizi spirituali. Tramite lo Yoga si vogliono dimenticare traumi di vita e d’amore, cercare equilibrio e vuoto; o come un po’ stupidamente si ripete, per ritrovare se stessi.
Lo Yoga per molti è uno sport, una tecnica di respirazione e di vita, un esercizio per concentrarsi o per smaltire il mondo coi suoi affanni, a volte perfino una dieta; o una disciplina della mente, e per pochi è un’ascesi spirituale, uno stile di vita e una visione che passa dal corpo senza esaurirsi in esso.
Emmanuel Carrère e lo Yoga
Vedendo quest’estate tra i bagnanti il libro di Emmanuel Carrère, Yoga, ho subito diffidato dell’opera. Ma il titolo secco e perentorio e l’editore affidabile sul tema, Adelphi, mi hanno spinto a provare. Così ho letto Yoga per capire come può uno scrittore occidentale di successo avvicinarsi allo Yoga, abbracciarlo e poi scriverne. Mi sono già insospettito quando ho capito che la sequenza era inversa: Carrère si è avvicinato allo Yoga con l’idea di scrivere come lui dice “un librino arguto e accattivante”.
Ma nella prima parte del libro mi era parso un tentativo autentico di cercare nello Yoga quell’equilibrio, quella fuoruscita, quell’apertura oltre le apparenze e i canoni occidentali che ci recludono in una prigione senza muri chiamata libertà. Mi piacevano gli autori citati nelle prime pagine, perfino Simone Weil sull’attenzione; e Pitagora quando risponde alla domanda “Perché l’uomo è al mondo?” “Per osservare il cielo”. Magnifica premessa per una svolta.
Cita pure il maestro tibetano Chogyam Trungpa quando dice che dedichiamo al presente solo il 20% della nostra attività cerebrale. Lui vuol spingerci a concentrarsi sul presente. A me invece piace immaginare che l’uomo disponga di cinque tempi o cinque mondi da abitare: il passato, il futuro, l’eterno, il favoloso e l’ultimo quinto il presente. È una mia teoria, non c’è nello Yoga, a me pare una ricchezza. Saggio è poi quel proverbio ebraico citato dall’autore: “Se vuoi far ridere Dio, parlagli dei tuoi progetti”.
La grande trinità dell’infelicità presente
Carrère descrive con la sua vivace abilità di scrittore le tappe dello Yoga, soprattutto sulla respirazione e si propone di superare con lo Yoga “l’ego, l’avidità, lo spirito di conquista e di competizione”, fino alla visione della realtà senza filtri. Lui, scrive, era abituato a cominciare tutte le frasi con Io, e ricordo la lezione della mia maestra in prima elementare a chi cominciava così le composizioni: Io asino primo, diceva, assimilandolo a un raglio ed esortandoci a non partire mai da sé. Per Carrère la paura, la vergogna e l’odio sono la grande trinità dell’infelicità presente. Giusto.
Mi pare una caduta quando chiude la sezione yogica riportando con goliardica condivisione il pensiero di un giovane che si sforzava di concentrarsi sulla respirazione, ma in realtà pensava tutto il tempo alla stessa cosa: “A un bel paio di tette!”. Divertente, ma a questo punto, anziché concentrarsi al mare sul suo libro sullo Yoga meglio guardare le tette che ci sono intorno…
Poi confessa che…
Poi Carrère si tradisce quando confessa che i suoi disturbi bipolari non possono essere guariti che raccontandoli. “È il mio mestiere. È quello che mi ha sempre salvato”. Un po’ mi riconosco, ma è già un segnale di fallimento della terapia Yoga. Inoltrandosi nelle sue pagine, oltre la copiosa descrizione delle sue turbe maniaco-depressive, i farmaci e i ricoveri, l’elettrochoc, sull’orlo del suicidio, è il diario di un fallimento: cercava con lo Yoga di uscire dall’Ego e invece è sempre lì, scrive e parla solo di sé.
Fino a che confessa che dopo 200mila battute di appunti sullo yoga, dopo una trentennale ricerca, “mi ritrovo solo, accoccolato in posizione fetale in un letto a una piazza, nella casa di una donna sola e perduta”. E aggiunge: “lo Yoga non c’entra niente, il problema sono Io”. Direi meglio, il problema è l’Io. Ha vinto l’Occidente, col suo egocentrismo malato. E alla fine come un bambino impertinente, dopo aver elencato in modo serio cos’è la meditazione, finisce col dire che “la meditazione è pisciare quando si piscia e cacare quando si caca”; finto zen, sa tanto di canzonatura puerile.
samsara
Infine per salvarsi e dare un contentino al lettore, congeda la spiegazione “seriosa” dello yoga, come la definisce, e abbraccia lo yoga pop, “quello che praticano in tutto il mondo le ragazze, che la considerano una splendida ginnastica” e “non hanno nessuna voglia di uscire dal samsara perché il samsara altro non è che la vita”, e contrariamente a quanto dicono i maestri, “la vita è bella”. E dopo pagine tormentate conclude col classico happy end, un amore appena sbocciato e la dichiarazione “Oggi sono pienamente felice di essere vivo”. Siamo contenti per lui, ma alla fine ci ha dato un breviario per scansare lo Yoga e restare in Occidente; un viaggio dall’Ego all’Ego, con sosta turistica nell’oasi yoga.
Alla fine, il suo scopo era davvero scrivere un libro di successo, convivere con le sue patologie, tenersi la sua vita e raccontarcela, non porsi problemi e non cercare visioni. Per chi voglia conoscere la via dello Yoga restano allora i testi dei maestri orientali; o se volete qualche mediatore occidentale, magari uno come Mircea Eliade. Carrére non è una guida, se non per uscire dallo Yoga e riportarvi nella confortevole alienazione occidentale.
MV, Panorama (n.37)
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